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Compie oggi 70 anni uno dei giocatori più talentuosi che hanno indossato la maglia biancorossa: Luigi “Gigi” Sanseverino. Sette stagioni a Monza (quattro in serie B, tre in serie C) dal 1971 al 1978. Con 62 reti realizzate in incontri di campionato (e 12 in coppa Italia) è il terzo marcatore di sempre nella storia biancorossa, alle spalle di Giovanni Arosio e del primatista Bruno Dazzi. Ala sinistra, classico numero 11 di allora, spesso utilizzato anche sulla fascia opposta ma anche centravanti agile, furbo, un predatore in area di rigore.  Alcune fra le cose che scriviamo Sanseverino le ha raccontate anche in una autobiografia “A volte il pallone è quadrato”, libro edito da Mantova Universitas Studiorum (2017). C’è tutta la sua vita: di uomo e di calciatore. E’ acquistabile su Internet.

Gigi, nato il 21 giugno 1950 ad Avellino, da ragazzino era tesserato della Virtus Vesuvio scuola calcio realizzata da un talent scout partenopeo, il dottor Cirillo, che con un investimento personale aveva creato un centro per la formazione di calciatori, organizzava provini presso società di tutt’Italia e i più capaci venivano ceduti ai vari club. Fu in Promozione a 16 anni che iniziò precocemente la sua carriera, l’anno dopo già in serie C a Chieti.

Lontano da casa, dalla famiglia, dalla propria città a soli 17 anni per andare dapprima a Chieti e poi… Un bel coraggio.

Avevo tanta malinconia soprattutto la sera, io sono un tipo molto sensibile e ascoltare qualche canzone su musicassetta (allora si usava il mangianastri) o vedere qualche film mi metteva nostalgia di casa. Sì, è stata dura.

Dopo Chieti e l’esperienza mantovana,  nell’estate del ’70 andasti alla alla Roma  del “mago” Helenio Herrera. Ma fu toccata e fuga. Perché?

A Mantova lasciavo la fidanzata, Elvira, che poi sarebbe diventata mia moglie. Quando mi disse di aspettare un figlio fu una mazzata, erano altri tempi, persi la tranquillità. Il mago ed i grandi giocatori di quella Roma, ricordo Amarildo e Del Sol, stravedevano per me, ma avevo vent’anni e la situazione che si stava creando mi sembrava troppo grande a quell’età. Il d.s. mi disse queste testuali parole “Sanseverino, vada a risolvere i suoi problemi in provincia”. Mi ritrovai al Pisa in prestito. Non fu una stagione esaltante, retrocedemmo, la Roma non mi riscattò, fine dell’avventura  (col Pisa segnò un gol al Monza in Pisa-Monza 2-0 alla decima giornata n.d.r.).

Qualche parola sul presidente Giovanni Cappelletti, che ti volle al Monza

Per me era come un secondo padre, c’era un feeling eccezionale, mi voleva molto bene, tanto da invitarmi spesso a casa sua in mezzo alla sua famiglia, anche sua moglie mi faceva sentire sempre a mio agio. Per un giocatore sentirsi così ben voluto era il massimo.  

Sei stato capitano per tanti anni, il tuo rapporto con lo spogliatoio?

Ottimo fino all’ultimo anno, quando si è rotto qualcosa in concomitanza con l’arrivo di giocatori con un buon passato in grandi club: Felice Pulici, Cantarutti, Silva, Cerilli… sono sempre stato capitano, ho cercato di tenere unito lo spogliatoio, ma questi giocatori non avevano la mentalità che si era creata in una squadra come il Monza, da sempre basata sui giovani, si davano un po’ di arie…. Anche lo stesso Magni forse si lasciò un po’ condizionare da questi grandi giocatori. L’ambiente era cambiato. Ricordo con piacere Anquilletti, che a Monza chiuse una grande carriera ma rimase umile ed era una persona mirabile.

Il picco più alto della tua carriera è stato a Monza: con un momento-chiave, una possibile svolta, l’approdo in serie A che rimase solo un bel sogno, svanito a Pistoia e poi a Modena.... C’è ancora chi maligna sul fatto che la società non volle la serie A… Cosa accadde effettivamente? 

Assolutamente no, direi che sono stupidaggini. A Modena fu una giornata storta e un’autorete a sette minuti dal termine di Michelazzi, un ragazzo bravissimo ma in quell’occasione sfortunato, ci negò di accedere almeno agli spareggi. L’anno dopo, a Pistoia, incontrammo una squadra data per retrocessa solo alcune domeniche prima e riuscita chissà come a tornare in corsa per la salvezza. Il Monza veniva da tre vittorie di fila (l’ultima per 4-2 sulla capolista Ascoli, n.d.r.) ma non riuscì mai ad entrare in patita e le illazioni a riguardo si sprecarono. Io ero in tribuna per un guaio ad un ginocchio e vedendo giocare così male la squadra qualche dubbio l’ho avuto, lo confesso, ma non sulla società… Se penso che il presidente ad ogni vittoria distribuiva un premio partita di 100mila lire a ciascun giocatore, spesso entrava a fine partita nello spogliatoio facendo il segno “V” con le dita che significava premio doppio perché avevamo vinto e giocato bene… e c’erano poi soldi anche per ogni punto conquistato... Beh, credo che se uno  mette tanto mano al portafoglio poi non rinuncia certamente a vincere. Cappelletti era ambizioso e non vedeva l’ora di potersi misurare in serie A con il suo Monza. Anche il d.s. Giorgio Vitali era voglioso di vedere la squadra in A per la prima volta…

In quel periodo ci fu furono anche richieste da parte di società di serie A

Si, fu un anno a novembre: mi cercò il Como. Ne parlai col presidente che mi disse testualmente “Io non ti mando a Como, ti do un premio se resti perchè in serie A ci andrai con il Monza”. Anche se poi il premio non arrivò, quando penso a queste parole mi vengono ancora i brividi. Lo ribadisco: mi stimava e mi voleva bene. La promozione in A l’ho sfiorata due volte proprio da giocatore del Monza, mi rimane il rimpianto di aver fallito l’obiettivo in maglia biancorossa. 

A Novara, ultima tappa, le cose invece andarono male.

A Monza era finito il mio tempo, ci fu anche un piccolo screzio dopo un gol segnato, mi scappò un gesto polemico nei confronti di alcuni contestatori (Monza-Ternana 2-0, 28 febbraio 1978 n.d.r.). Cappelletti mi convinse ad accettare il trasferimento a Novara, assieme a suo genero, il terzino Paolo Viganò, che conoscevo bene in quanto eravamo stati compagni di squadra anche a Roma. Viaggiavamo sempre assieme nei tragitti da e per gli allenamenti, eravamo grandi amici. A Novara non riuscii a integrarmi nel nuovo ambiente, arrivai reduce da un serio infortunio e con il presidente Tarantola non ci fu mai feeling: mi rinfacciò che avevo un buon ingaggio ma non giocavo. A causa dell’infortunio riuscii ad esordire dopo due mesi, con l’allenatore Bolchi andavo d’accordo, ma il presidente mi aveva preso di mira dicendo che pensavo solo ai quattrini e per niente alla squadra. Alla fine il tutto sfociò in un furioso litigio fra di noi e finì la mia avventura e la mia annata da dimenticare. 

In quel momento hai deciso: basta con il calcio, a 29 anni.

Tornai al Mantova che avrebbe voluto cedermi alla Sanremese. Pensavo alla famiglia, al futuro. In quegli anni un calciatore ai miei livelli non guadagnava tanto da poter vivere di rendita una volta smesso... Un amico mi aveva detto che la Cariplo assumeva personale. Feci domanda ed entrai in banca. Era il 1979, non avevo ancora 29 anni. 

E il Monza lo segui? Qui adesso stiamo sognando ad occhi aperti…

Certo che lo seguo. Fate bene a sognare, oggi nel calcio è fondamentale la solidità economica, ed a Monza è arrivata con il Gruppo Fininvest. I proprietari sono persone ambiziose e competenti. Il salto in serie A direi che è ampiamente alla portata.   

Ti do una notizia: lo scorso inverno dalla società mi ha chiesto cosa vorrei fare per il Monza, perché è loro intenzione riportare in società a vario titolo molti ex giocatori, gente che sente ancora sua la maglia biancorossa. Poi il Covid-19 ha bloccato tutto, ma ci dobbiamo vedere prossimamente per definire qualcosa. Io ho detto loro che potrei fare l’osservatore nella zone dove risiedo, mi piace seguire i giovani e mi sento all’altezza del compito.   

E il tuo libro? Com’è nata l’idea?

Avevo conservato una raccolta di miei scritti, mi sarebbe piaciuto raccontare la mia vita non solo calcistica ma anche personale. A convincermi ed aiutarmi a scrivere il libro è stato Pietro, 23 anni, uno dei miei sei nipoti, che per me sono soprattutto grandi amici. Il titolo (A volte il pallone è quadrato) esemplifica come spesso nella vita le cose non vanno sempre bene o come uno vorrebbe. Ci sono riferimenti anche al grande Ambrogio Caprotti, fotografo storico del Monza e grande amico di una vita, col quale mi sento spesso e sono molto legato, così come con suo figlio Giuseppe che gestisce un importante negozio di ottica a Monza.

Vivo in una casa in campagna a Bagnolo San Vito, nei pressi di Mantova, resa ancora più grande e vuota dalla scomparsa di mia moglie, avvenuta lo scorso settembre. Dopo 51 anni vissuti fianco a fianco è stata una batosta… Confesso che se non fosse per i miei figli e miei nipoti sarebbe ancora più dura, sto cercando pian piano di  risollevarmi e loro mi sono di grande conforto. 

Auguri goleador, giocatore e uomo di grande animo. Ricordiamo che per Te ogni partita era una battaglia. 

Il nostro incitamento ti possa raggiungere e sostenere, come ai vecchi tempi.         

Giulio Artesani