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Ciao zio Bes, sono passati quasi quattro anni dal quel giorno in cui riuscii a farti finalmente un'intervista. Per me fu un po' come se l'allievo interrogasse il maestro, ma tu riuscisti a trasformare la mia iniziale titubanza in entusiasmo e disincanto, proprio come tu solo sapevi fare spesso e volentieri e quell'intervista telefonica che sarebbe dovuta durare al massimo qualche minuto si protrasse per un bel po', tanto che riassumerla salvandone le parti cruciali fu un lavoro che ancora mi ricordo bene. Te lo confesso solo ora. Ne ripropongo qualche stralcio, è come se tu fossi ancora a quel telefono a snocciolare ricordi e aneddoti. E' come se tu fossi ancora qui ad accogliermi con un sorriso e una battuta delle tue: arguta, garbata, intelligente e soprattutto ironica. Quasi un abito su misura per chiunque. 

" Ed ecco che finalmente anche il decano dei giornalisti che scrivono del Monza ci concede un'intervista per la rubrica "penne biancorosse". Lui per tutti è lo “zio Bes” oppure lo “zio Gianca”. Il suo amore per il Monza, il suo impegno instancabile, il suo talento raro nel saper raccontare in un linguaggio forbito ma semplice e genuino, meticoloso ma comprensibile a tutti, ne fanno il capostipite delle “penne biancorosse” e non solo per ragioni anagrafiche. Non c’è stato avvenimento importante in terra di Brianza negli ultimi cinquant’anni che non lo abbia visto in prima fila con un commento o una semplice nota. Tutti lo stimano e gli vogliono bene, soprattutto quelli (pochi) che dicono di non amarlo troppo… Impresa ardua rubricarne la carriera, basti dire che segue il Monza dagli anni cinquanta: Il Cittadino, la Gazzetta, il Corriere della Sera, i giornalini distribuiti al Sada prima delle partite, trasmissioni radiofoniche e televisive… e chi più ne ha più ne metta. Questo è, in breve, Giancarlo Besana, che raggiungiamo in Toscana dove sta trascorrendo le sue vacanza divise fra Maremma e mare.

Giancarlo, anzitutto grazie per la disponibilità. Sei rimasto uno dei baluardi del giornalismo biancorosso: un’impresa per nulla facile di questi tempi…

E’ un’impresa tenere duro. Sono un baluardo che si sta un po’ sbrecciando negli ultimi tempi. Visto l’andamento delle ultime stagioni il bastione è lì lì per crollare, da incrollabile come può sembrare in apparenza. Nell’ultimo campionato ho frequentato poco le partite e non ho mai avuto problemi a negare che la mia fede ha un po’ vacillato (...) 

Passiamo ai ricordi: quale partita ti è rimasta più in mente fra tutte quelle che hai visto ?

Ce ne sono tante, nel bene e nel male… Nel male lo spareggio di Bologna (1 luglio 1979, n.d.r.) con noi che arriviamo lì, sfiliamo sotto i portici, con una pioggerellina che rende tutto più allegro e frizzante e ci aiuta a cantare ed essere fiduciosi. Poi arriviamo allo stadio e vediamo le “falangi” del Pescara, venti volte più di quanti che eravamo noi, e proviamo la sensazione di essere sovrastati. E proprio così è stato, perché sul campo siamo stati sopraffatti nettamente, anche con quel doloroso autogol di Ronco. E dire che eravamo arrivati con la serie A lì ad un passo, buttata via con la sconfitta interna col Lecce… Viceversa, ricordo volentieri o spareggio di Bergamo con il Como 84 giugno 1967, n.d.r.) con Radice in panchina ed il gol di Maggioni, lui che era il più lento di tutti e con il suo piattone ha risolto la partita. E poi Radice in piedi che continua a chiedere al dottor Sala quanto manca alla fine.

Tre nomi di giocatori ed uno di un allenatore che ti sono rimasti nel cuore…

Ah! E’ durissima: direi Claudio Sala su tutti, poi Gigi Sanseverino e poi Tosetto. Ne metterei un quarto a sorpresa: Arrigo Dolso, un meraviglioso mancino, maglia numero dieci. La sua foto campeggiava sulla copertina di un disco che era quasi pronto in vista della promozione in serie A. Siccome Dolso non c’è più mi piace ricordarlo anche così. E poi anche Marco Bolis, se dovessi pagare per rivedere con la maglia del Monza qualcuno sceglierei di vedere lui. Non faceva quasi mai un gol ma dava la sensazione di poter vincere da solo le partite. Non ha poi fatto una carriera come avrebbe meritato, ma aveva dei mezzi enormi. Fra gli allenatori nella mia personale gerarchia al primo posto c’è Alfredo Magni, assolutamente! Poi Gigi Radice e poi… metterei Mazzetti.

Passiamo al settore giornalistico: qual è la principale differenza tra nuove e vecchie generazioni?

La nuova generazione si distingue per maggiore preparazione tecnologica, i giovani colleghi sono sempre molto documentati grazie al fatto di avere dalle nuove tecniche la possibilità di studi scientifici che io non ho avuto la fortuna di avere, ad esempio. I nostri erano supporti cartacei. Per fare della statistica te la dovevi creare oppure andare a trovare nelle biblioteche o negli archivi. La nostra era una conoscenza più empirica e sentimentale. La mia era una generazione di giovani più da marciapiede, la notizia te la dovevi andare a cercare Oggi i giovani sono più avvantaggiati in questo senso, anche se quello che manca loro è proprio il marciapiede, una sorta di gavetta romantica che non c’è più e ciò non contribuisce a formare il carattere delle nuove leve, fatte salve alcune eccezioni. Io ho iniziato dalla lega giovanile e dalle prime quindici righe portate a Giovanni Fossati al Cittadino e sono cresciuto all’ombra di Angelo Corbetta, Giovanni Fossati e Mario Perego. Il primo mi considerava un po’ dispersivo e spesso mi rimproverava di sprecare il mio talento, ma mi voleva un gran bene. Con lui ho lavorato a radio Monza e Brianza e di lui conservo un ricordo splendido e indelebile, come quello delle trasmissioni del lunedì condotte al suo fianco. Fossati mi definiva un “caval matt” (un cavallo pazzo). Di Perego conservo ricordi bellissimi, per me è stato un esempio. Ecco, i miei punti di riferimento sono stati questi tre. Ma io non sono di quelli che dice “Noi eravamo meglio, noi avevamo un altro spessore, ecc…”: sono solo balle: i ragazzi di oggi sono meglio documentati di quanto fossimo noi. I fatto di poter iniziare già ad un certo livello crea spesso false illusioni che poi non sfociano in quelle che sono le loro attese. Io ho il massimo rispetto e la massima fiducia nelle nuove generazioni.

Ci puoi raccontare un aneddoto legato alla tua vita da cronista al seguito del Monza?

Mi viene in mente quello che accadde con Anquilletti, detto Anguilla: Anquilletti venne a Monza a fine carriera, col Milan aveva vinto praticamente tutto. Magni non sapeva bene come impiegarlo, perché da terzino non aveva più una gran gamba, da centrale o da libero invece dava garanzia di esperienza. Durante una trasferta a Palermo (25 settembre 1977, era il Monza che sfiorò la serie giungendo quarto, n.d.r.) si doveva affrontare un centravanti che era un po’ come un toro dalle narici fumanti: Vito Chimenti. La sua specialità era la bicicletta, che consisteva in una giochino con cui faceva passare la palla sopra la testa con un colpo di tallone e il pubblico lo osannava e gli chiedeva in continuazione questo gesto. Sapendo che Anquilletti avrebbe giocato da stopper proprio in marcatura su Chimenti pensai di avvisarlo di questo giochino del centravanti rosanero: figuriamoci la reazione di Anquilletti… Dall’alto dei suoi titoli e della sua esperienza mi squadrò e mi schernì quando nominai in dialetto “la bicicleta”. Accadde che ad inizio partita Anquilletti subì questo giochino da Chimenti che per poco non procurò il gol al Palermo. A fine partita gli dissi (fra noi ci si parlava in dialetto) “Tè vist che ta l’a fada la bicicleta…” e lui già arrabbiato per come andò a finire la partita: “Ma cus’ à lè ‘sta bicicleta…”. Forse non l’aveva ancora capito, forse pensava lo stessi prendendo in giro o preso dalla trance agonistica non se n’era accorto… Un altro episodio curioso fu ad Ascoli (12 gennaio 1986, sconfitta per 4-0, n.d.r.). La trasferta fu in pullman ed allora i giornalisti viaggiavano con i giocatori. A Monza allora c’erano due testate: il Cittadino e L’Eco ed io ero l’unico inviato. Saini sedeva davanti a me ed a un certo punto si gira mi dice “Gianca, il mister lascia fuori Fontanini”. Io trasecolai, ma con quell’allenatore (Carosi, uno dei più scarsi mai visti a Monza, era all’esordio al posto dell’esonerato Magni,) tutto era possibile: era arrivato da poco dalla Lazio e non conosceva i giocatori a tal punto da lasciar fuori il più in forma. Per lui Fontanini, Spollon, Tacconi… pari erano. Quel giorno dovetti bloccare Fontanini che, borsone in mano, stava andandosene a prendere il treno per tornare a casa appena appreso dell’esclusione. Evitai l’esplosione di un “caso” ma quella stagione terminò con l’ultimo posto in classifica e la retrocessione.

C’è un campione sportivo a cui sei particolarmente legato?

Non ho dubbi, conservo ancora la sua maglia dell’Inter col numero dieci. Era di Lennart Nacka Skoglund. Biondo, svedese, mezzala sinistra, un giocatore fantastico. Un giorno venne anche a casa mia, accompagnato da un amico comune di mio padre e per me fu il top: mi ricordo che scese dalla macchina con ai piedi due mocassini bianchi con le fibbie dorate, io gli porsi un pallone e fece due palleggi proprio davanti a me. Fu come se ad un ragazzo di oggi si presentasse a casa Messi… Fra i campioni di oggi ammiro Cristiano Ronaldo, anche se molti lo detestano e lo criticano: recentemente ho tifato Portogallo solo per lui e tengo a precisare che io non odio i francesi. E’ un gran calciatore ma soprattutto un vero atleta che sa correre i cento metri come pochi e stacca da terra come un saltatore in alto. Seguo il ciclismo, sport che ho praticato da ragazzo, ma faccio fatica ad appassionarmi ai campioni di oggi, che si chiamino Nibali o Aru. Più che per Pantani ho pianto e sono stato tifosissimo di Bugno, di lui ne avevo fatto una vera e propria malattia. Ha vinto tanto, ma non quello che avrebbe potuto vincere con i mezzi di cui madre natura l’aveva dotato. Sono stato tifoso di Coppi e di uno scalatore spagnolo: Federico Bahamontes (vincitore del Tour del 1959 n.d.r.) l’aquila di Toledo, che pochi conoscono e rammentano e che ho avuto il piacere di incontrare per caso a Madrid, quando si dice il destino…"

Giulio Artesani