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Eugenio Bersellini segna dal dischetto al suo debutto al Sada contro l'Alessandria (foto Valtorta)
Eugenio Bersellini segna dal dischetto al suo debutto al Sada contro l'Alessandria (foto Valtorta)

Quando cominciavo a sognare di fare il giornalista sportivo – fine anni ‘70 – iniziavo pure a diffidare degli stereotipi. Non mi piacevano affatto quei luoghi comuni, quelle frasi fatte che etichettavano un personaggio e lo riducevano negli angusti confini di una sbrigativa definizione sempre carica di suggestione ma spesso lontana dalla quotidianità. E dalla realtà. Trovavo stridente, ad esempio, l’appellativo ‘Sergente di Ferro’ appioppato all’allenatore dell’Inter, Eugenio Bersellini. Lo vedevo sempre gentile, misurato, equilibrato, quasi timido, davanti ai microfoni e mi chiedevo – da adolescente a metà tra l’ancora ingenuo ed il già critico – come una persona così potesse trasformarsi in un arcigno controllore di uomini ed in un duro trasmettitore di ordini nei rapporti con i suoi ragazzi. 

Che, particolare destinato ad aumentare a dismisura i miei dubbi, gli volevano bene. Tanto bene. Come non se ne può volere ad uno spietato e freddo comandante. Se la nostra categoria fosse stata meno superficiale (allora come adesso) avrebbe invece dovuto riconoscere a mister Bersellini di essere stato il primo a credere in una preparazione fisica maniacale rispetto alla (blanda) media dell’epoca. Sua, e scusate se è poco, l’introduzione dello stretching. Se la nostra categoria fosse stata più attenta (allora come adesso) avrebbe dovuto sottolineare che il tecnico di Borgo Val di Taro ereditò un Inter totalmente allo sbando (senza titoli da 7 anni e con un solo giocatore – il portiere Bordon vice di Zoff – nella Nazionale che si apprestava ai mondiali in Argentina nel 1978) e la lasciò con due Coppe Italia (1978 e 1982) ed il capolavoro dello scudetto 1979-80, ultimo campionato senza stranieri. Capolavoro costruito con certosina pazienza, dedizione assoluta e basato sia su una condizione atletica al top sia su rapporti umani profondamente indissolubili. Detto per inciso: nell’Italia Mundial 1982 diedero contributo fondamentale 4 nerazzurri (Bergomi, Oriali, Marini ed Altobelli) cresciuti esponenzialmente grazie alla gestione di Eugenio. Che, romantico ricordarlo alla vigilia di Monza-Inter, nella sua carriera vestì per ben 130 volte (e 13 gol) la maglia biancorossa. 5 campionati. Tutti di Serie B. Prima dal 1960 al 1962, poi – dopo una stagione alla Pro Patria – dal 1963 al 1966. Gli stereotipi abbondano anche nei giudizi sul Bersellini calciatore, eppure 11 anni consecutivi di cadetteria (i primi 5 a Brescia) testimoniano di un professionista serio e scrupoloso, con la cultura del lavoro e del gruppo e la voglia di migliorare – attraverso l’allenamento – i propri limiti. Era il Monza griffato Simmenthal, quello del cavalier Sada e del tecnico argentino Hugo Lamanna. Il 24enne Bersellini debutta al Sada contro l’Alessandria nella giornata inaugurale del campionato 1960-61: maglia numero 10 sulle spalle e trasformazione impeccabile dal dischetto per il provvisorio vantaggio monzese (il match finirà 1-1).

 Alla faccia di etichette e luoghi comuni. Decisamente migliori le prime due stagioni biancorosse di Eugenio rispetto alle tre dopo la parentesi di Busto Arsizio. L’archivio polveroso del tempo consegna a quello emozionato del cuore il ricordo di un ragazzo dolce e di un centrocampista capace di garantire quantità senza disdegnare spruzzi di qualità. 

Eugenio Bersellini, mister del Toro, con una giovane tifosa granata

L’ultimo flash su Bersellini non centra invece nulla con Inter e Monza. Mi sia concesso. E’ una sua foto da allenatore del Toro. Accanto al mister la granatissima Brunella, mia moglie. Perchè c’era lui in panca nell’indimenticabile derby del 27 marzo 1983. Quello del clamoroso ribaltone tra il 71’ ed il 74’: dallo 0-2 al 3-2 con 3 gol in tre minuti. Dossena, Bonesso, Torrisi. Pim pum pam. Tanti saluti alla Vecchia Signora piena di Campioni del Mondo e della classe di Platini. Eugenio, cappotto blù svolazzante e sorriso da felicità assoluta, si getta nell’esaltante abbraccio ai suoi ragazzi: sintesi perfetta di un allenatore che ha fatto della compattezza del gruppo il credo principale di una grande carriera.

Fiorenzo Dosso