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Ogni mister mette solitamente nel proprio bagaglio tecnico, tattico e gestionale qualcosa di quelli che sono stati i suoi allenatori durante la carriera di calciatore. Roberto D’Aversa, che nel prossimo turno di campionato sarà sulla panchina dell’imbattuto Lecce al Brianteo, a Monza ha avuto (tra il 1996 ed il 1999) quattro tecnici. In ordine cronologico: Rumignani, Radice, Bolchi, Frosio. 

Ovvero, in regolare alternanza, i due che – personalmente – ho meno stimato ed i due che, insieme a Magni, ho invece maggiormente amato. In parecchi precedenti Amarcord sono tornati a galla i racconti del cabaret by Rumi ed i motivi della mia totale assenza di feeling con Maciste. Non mi sembra né bello né elegante infierire. Se mai mister D’Aversa dovesse leggere queste righe vorrei piuttosto fargli sapere che Gigi e Piero hanno sempre creduto in quel giovane centrocampista abruzzese nato in Germania ed arrivato in Brianza per fare esperienza, crescere e trovare la propria dimensione nel mondo del calcio. Senza saperlo e senza volerlo, D’Aversa fu l’ultimo giocatore difeso dal grande Radice. Episodio più volte citato: domenica 28 settembre 1997 al Granillo di Reggio Calabria. Gigi, eroe della promozione di pochi mesi prima e profondamente amareggiato per le promesse di mercato non mantenute dalla deludente gestione biancorossonera, disegna tatticamente un buon Monza che disputa un ottimo primo tempo e va immeritatamente sotto a metà ripresa. Mentre i padroni di casa festeggiano il casualissimo gol di Pinciarelli proprio D’Aversa si lascia scappare qualcosa che il permaloso Calabrese (corregionale del centrocampista biancorosso) punisce con il rosso. L’inferiorità numerica chiude ogni speranza di rimonta. Negli spogliatoi piomba il presidente Giambelli. Che redarguisce verbalmente il giocatore espulso, Radice dapprima ricorre a massicce dosi di self control per stemperare l’adrenalina post partita ma quando il massimo dirigente reitera ad libitum la reprimenda nei confronti di D’Aversa esplode nella clamorosa frase che ho già più volte ricordato (“Basta, Presidente! Basta! Il problema non è certo D’Aversa ma i cifoni che ci hanno mandato i suoi amici”). E che il giorno dopo gli procurerà l’esonero. Talmente doloroso e choccante da fargli passare per sempre ogni ulteriore voglia di panchina.

 Ecco, mister D’Aversa può andare orgoglioso per essere stato l’ultimo giocatore ‘difeso’ da un tecnico entrato nella storia del calcio italiano per lo scudetto del Torino 1976 e nella leggenda biancorossa per due promozioni dalla C alla B a distanza di 30 anni (1967 e 1997). Autunno ed inverno con Maciste sono castigo che non meritavamo ma per chi sa aspettare l’arrivo della primavera è sempre emozionante simbolo di rinascita: a marzo 1998 torna Frosio, la squadra esce dal torpore bolchiano ritrovando fiducia e salvandosi con un turno di anticipo. Piero – sia nei momenti ufficiali che in quelli confidenziali – spende sempre parole molto belle su Roberto D’Aversa. Che rimarrà con lui anche l’anno successivo contribuendo ad un’altra tranquilla salvezza in una Serie B terribile per la presenza di Napoli, Genoa, Torino ed Atalanta … Salto temporale di una quindicina d’anni, autunno 2014, Piazza San Paolo. Sentirsi chiamare da Piero che ti invita all’aperitivo è sempre una grande, bella emozione. Cocktail e stuzzichini. Calcio e ancora calcio. La Roma di Garcia che tiene testa alla Juve di Allegri.  Il Milan di Inzaghi e l’Inter di piangina Mazzarri in crisi. 

Un altro giro e sempre calcio. Serie B. Qualcuno si stupisce della grande stagione che sta facendo la Virtus Lanciano del giovane allenatore Roberto D’Aversa, alla prima esperienza in panchina. Piero mi guarda, mi strizza l’occhio e: “Fiore, dillo anche tu a questi qui: noi che lo abbiamo conosciuto da giocatore mica ci stupiamo che la sua squadra stia andando così bene. Per me era logica conseguenza che diventasse anche un ottimo tecnico.” Se mai Roberto D’Aversa dovesse leggere queste righe dedichi un breve pensiero a due allenatori del Monza che lo hanno sempre tanto stimato. Nelle parole e nei fatti.

Fiorenzo Dosso 

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