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Nel libro di Evaristo Beccalossi emerge un gusto per il racconto pari a quello per la giocata, ma attenzione: quel numero 10 (ereditato dai vari Skoglund, Suarez e Corso) è indossato come l'attesa del dì di festa, perché la cantilena possa emozionare ancora, ecco il perché

Centrale il legame con l'Inter e con l'Inter che si cucì il tricolore numero 11 sul petto, un “Gruppo di ragazzi uniti e sani”, svezzati dal Sergente di Ferro Eugenio Bersellini, che vinse l'ultimo torneo senza stranieri: “Acquisimmo concretezza, già giocavamo bene. Il calcio è una metafora della vita, nei momenti difficili è uno sport che ci ricorda di essere squadra e io ho sempre cercato di dare una mano ai compagni al di fuori del campo. Quando con Rino Marchesi le briglia si allentarono, noi giovani un po' ci perdemmo”

E così si passa da Pallottola Bordon a Carro Armato Baresi, da Goldrake Pasinato a Fosforo Caso, dai rimproveri di Piper Oriali ("L'essenza dell'Inter, furono strigliate con cui capii quanto credesse in me") alla sinergia ("Figlia dell'istinto") con il secondo bomber di sempre dell'Inter, Spillo Altobelli

Erano i tempi in cui un Settore Giovanile innervava la Prima Squadra e il calciatore viveva naif la carriera ("Adesso quanto si gioca? Adesso quanti ragazzi compongono la rosa, stante i calendari?? Al netto dei guadagni, qual è la pressione??? Agli Azzurrini do una mano mentale"), come scenografia i due anelli, imponenti, del Meazza (“Senza copertura, né posti numerati”) e l'ammissione che in un campo dove “Si sente l'umore degli spalti governano personalità e resilienza” 

Che come numero 10 ("Urgono visione di gioco, testa alta, dribbling: io impazzivo a fare assist") il biondino fosse speciale, lo vergano Peppino Prisco (“Beccalossi coccola la palla”) e Gianni Brera (“Beccalossi vede autostrade che per altri sono viottoli di campagna”), ma il ruolo è da assecondare al di là dell'auto - compiacimento: “Il mio idolo era Omar Sivori, ero destro naturale e mi incaponii di fare il mancino, volevo divertirmi per divertire la gente come lui; Diego Maradona era un mondo a sé, una Pantera e l'erba che frusciava. Irritante contrapporre me e Michel Platini, il più simile? Vincenzo D'Amico

Il segreto di una finta è tutto nei “Campi pesanti e scivolosi che si adattavano alle mie caratteristiche, mentre i marcatori scivolavano. Sei contro sei all'Oratorio San Domenico Savio: nelle Giovanili delle Rondinelle mi prese un senso di smarrimento, poi coltivai la mia differenza all'Antistadio. Avevo la fiducia di Mauro Bicicli: la figurina Panini fu il segno che ce l'avevo fatta”

L'incontro con il talentuoso e incostante Gilles Villeneuve (“Sguardo intenso con un fondo di tristezza") non si incanala in una mera passione per i motori, perchè “Anch'io non riuscivo a immaginare cos'avrei combinato in campo, una psicologa mi disse che avevo fallito a Genova perché Genova era tranquilla, troppo”: ma in fondo amare “Il guizzo piuttosto che la costanza, l'imprevedibilità piuttosto che l'affidabilità” è sentiero per una vita dopo il pallone, come venditore per la Sony, o dirigente in quella Nazionale un tempo agrodolce, che ha regalato un'estate fa il titolo continentale a Malta

E poi il ricordo del galantuomo Valentino Giambelli ("Giocai metà partite e mi regalò il cartellino, a suo dire il mio posto era la A"), la Cina e Michele Dancelli, Paolo Rossi e Paolo Mantovani, la tv e Franco Califano, una Appiano Gentile straniera e il Ciocco, nel solco leggero di un'emozione che non può corrugare il viso 

Recensione a cura di Antonio Sorrentino

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