“Dovevamo rapire Berlusconi”: il racconto di un ex boss è clamoroso
L’ex uomo di fiducia di Totò Riina svela il piano fallito a Milano nel ’75 e ricorda la scelta di collaborare con Falcone e Borsellino: “Parlai per far cadere un sistema”.

«Tutto era pronto. Dovevamo sequestrare Silvio Berlusconi».
A dirlo è Gaspare Mutolo, 84 anni, ex killer di Cosa Nostra e uomo di fiducia di Totò Riina, che nel 1991 decise di rompere il silenzio e collaborare con i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Oggi, davanti al pubblico del Rumore Festival di Fanpage.it, ha ricordato il piano fallito, gli anni di sangue e il momento in cui decise di “far cadere un sistema”.
“Dovevamo rapire Berlusconi”
Mutolo ripercorre gli anni in cui la mafia era una macchina perfetta di violenza e affari:
«Era il 1975, a Milano avevamo una bottega di copertura. Tutto era pronto per il sequestro. Berlusconi era un obiettivo perfetto: imprenditore ricco, visibile, con liquidità immediata. Ma poi arrivò Nino Badalamenti, cugino di Tano, e ci disse di tornare in Sicilia. Era stato deciso di non fare più il rapimento».
Secondo Mutolo, la rinuncia non fu un atto di pietà, ma il risultato di un accordo segreto:
«Berlusconi lo venne a sapere tramite Marcello Dell’Utri. Fecero un patto. E inserirono Vittorio Mangano come “stalliere” nella sua villa, ma in realtà era un uomo di protezione. Era come mettere una bandiera palermitana davanti casa sua: significava che quell’imprenditore non si toccava».
Il racconto di un killer diventato collaboratore
Con 29 omicidi alle spalle, Mutolo fu tra i primi a svelare ai magistrati i legami tra mafia e affari del Nord.
Entrato in Cosa Nostra nel 1973, divenne uno dei più fidati esecutori di Riina:
«Il mio rapporto con lui era umano, d’amicizia. Ma quando cominciò a circondarsi di uomini senza scrupoli, per non essere fregato, fregava lui».

Fu protagonista anche di azioni simboliche:
«Nel ’68 bruciai la macchina del giudice Cesare Terranova. L’ordine veniva da Riina, perché avevano mandato al confino la sua fidanzata, Ninetta Bagarella».
Falcone, Borsellino e la scelta di parlare
Il 15 dicembre 1991 Mutolo si presentò al Ministero della Giustizia e disse a Falcone: “Ho deciso di collaborare”.
«Falcone mi affidò a Paolo Borsellino. Ma aspettai otto mesi prima di parlare, perché a Palermo c’erano veleni, dentro e fuori la magistratura».
Il suo racconto, negli anni, contribuì a ricostruire i rapporti tra Cosa Nostra, politica e imprenditoria, smascherando connessioni che per decenni erano rimaste invisibili.
«Falcone non voleva sconti di pena. Credeva che la verità potesse redimere un uomo. Lui e Rocco Chinnici avevano capito che la mafia non era solo sangue, ma anche affari e potere. Per questo li hanno uccisi».
“Ho parlato per far cadere un sistema”
Oggi Mutolo si definisce un uomo che non cerca perdono, ma memoria:
«Non ho parlato per paura di morire. Ho parlato per far cadere un sistema. Io ne facevo parte e lo conoscevo bene».
Di Berlusconi, dice senza rancore:
«Era un imprenditore intelligente, aveva capito come funzionava il mondo. Noi lo avevamo messo nel mirino, ma lui aveva già trovato la soluzione».
Il suo racconto è la fotografia di un’Italia che non voleva vedere: la mafia che si spostava al Nord, nei cantieri, nei salotti e negli affari.
«La mafia non era solo a Palermo. Era ovunque. Dove c’erano soldi, c’era anche lei».