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Ci sono storie professionali che non nascono da un progetto, ma da un incontro imprevisto.
Quella del dottor Sandro Barni appartiene a questa categoria silenziosa e luminosa.
Quando gli si chiede come sia arrivato all’oncologia, non parla di ambizioni o di piani di carriera. Parla della nonna.

«L’ho accompagnata all’Istituto dei Tumori di Milano», racconta. «E lì ho visto qualcosa che nella Medicina Interna non avevo mai provato: un rapporto diverso con il paziente, un coinvolgimento umano più profondo. Erano gli albori dell’oncologia moderna. C’era poco, ma c’era tantissimo da costruire. In quei mesi mi sono innamorato della disciplina.»

Non era ancora laureato.
Eppure entrò in reparto, fece la tesi lì e rimase, come se quella scelta lo avesse trovato prima ancora che lui trovasse lei.
È così che inizia la storia di un medico che, molti anni dopo, avrebbe ricevuto il Premio “Dino Amadori”, uno dei riconoscimenti più prestigiosi dell’AIOM.


Guardare indietro senza nostalgia

Barni non ama ripercorrere il passato. «Non mi piace guardare indietro», confessa.
Eppure, quando gli è stato comunicato il premio alla carriera, ha sentito il bisogno di fermarsi.
«Mi sono chiesto perché lo dessero proprio a me. Il presidente Perrone mi ha risposto: “Per tutto quello che hai fatto”. Allora ho provato a mettere ordine.»

Sono tre le dimensioni che emergono nel suo sguardo retrospettivo: clinica, ricerca, servizio alla società scientifica.

La clinica, innanzitutto.
Barni ha vissuto un’epoca in cui i reparti di oncologia semplicemente non esistevano. Si lavorava in Radioterapia, ci si adattava, si imparava facendo. «Ho fatto tutta la carriera ospedaliera: assistente, dirigente, primario, direttore di dipartimento. Ho visto nascere e crescere una disciplina che, quando ho iniziato, guariva due pazienti su dieci. Oggi ne curiamo sette su dieci. È un progresso straordinario.»

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Poi c’è la ricerca.
Un terreno che lo ha accompagnato per tutta la vita. «La curiosità e l’umiltà mi sono state insegnate all’INT. Era evidente fin da allora che senza ricerca la clinica resta sterile. Ho sempre cercato di non separare mai le due cose.»

E infine l’AIOM.
«Ho servito l’associazione in ogni ruolo possibile. Consigliere regionale, coordinatore della Lombardia, consigliere nazionale, presidente di AIOM Servizi. Ho sempre creduto che un oncologo abbia anche un dovere verso la comunità scientifica a cui appartiene

Alla fine di questa meditazione, Barni ha capito qualcosa di semplice e decisivo:
«Essere un oncologo normale significa tenere insieme clinica, ricerca e servizio. Se uno di questi tre pilastri manca, non siamo più normali.»


Un’Italia che cura, tra eccellenze e disuguaglianze

Quando gli si chiede quale sia oggi la criticità più urgente dell’oncologia italiana, Barni rifiuta ogni narrazione pessimistica.

«L’oncologia italiana funziona. I risultati lo dimostrano: la sopravvivenza dei nostri pazienti è superiore alla media europea. Dal punto di vista scientifico siamo solidi, riconosciuti, credibili.»

Esiste però un divario che lo preoccupa.
Non riguarda i medici, ma il Paese.

«I progressi non sono distribuiti in modo uniforme. Le strutture, le tecnologie, la prevenzione: non arrivano a tutti nello stesso modo. Ci sono territori con meno radioterapie, meno risorse, meno accessi. Non è una colpa di chi lavora, ma della struttura del sistema sanitario.»

A questo si aggiunge la lentezza nell’arrivo dei nuovi farmaci: «Tra l’approvazione negli Stati Uniti e la disponibilità in Italia possono passare anche due anni. È una questione regolatoria ed economica, ma resta un limite.»

E poi la burocrazia, una nota dolente che attraversa tutte le corsie.
«Un oncologo oggi passa più tempo al computer che con il paziente. È una distorsione che ci allontana dal cuore del nostro lavoro. Dovremmo poter dedicare più tempo all’ascolto, alla cura vera, non ai moduli.»


La normalità che costruisce il futuro

Nelle parole di Barni non c’è enfasi. C’è una calma autorevole, una lucidità che deriva dall’aver visto tutto: l’inizio, le conquiste, gli errori, le rinascite.

Il Premio Amadori, alla fine, non celebra soltanto una carriera.
Celebra una visione: quella secondo cui normalità significa impegno costante, ricerca silenziosa, servizio alla collettività e capacità di stare accanto alle persone nel momento più fragile della loro vita.

È una lezione antica, ma oggi più attuale che mai.
E nelle mani di un medico come Barni acquista il valore di una promessa: continuare a costruire un’oncologia che cura le malattie, ma non dimentica mai di curare le persone.