Scandalo nel ciclismo: il campione italiano è un disoccupato senza squadra
La vittoria shock di Filippo Conca racconta il fallimento del ciclismo italiano moderno

Non serve essere esperti di pedali per accorgersi che qualcosa, nel ciclismo italiano, non va più. Una volta eravamo la patria di leggende come Bartali, Coppi, Gimondi, Moser e Nibali. Oggi ci svegliamo scoprendo che il campione italiano è… un dilettante.
Sì, avete capito bene. Non un giovane fenomeno in rampa di lancio, ma un corridore senza contratto, fuori dal sistema, che si è trovato un lavoro come tanti ma non ha mai smesso di credere nella bicicletta.
Un racconto che sembra una favola, ma che in realtà è il manifesto di una crisi spaventosa. Una crisi che parte da lontano, tra regole confuse, squadre allo sbando e un sistema che sta implodendo sotto il peso delle proprie contraddizioni.
Per capire cosa è successo, e cosa significa davvero questa vicenda, bisogna andare oltre il titolo.
Filippo Conca, il campione senza squadra
Il nuovo campione italiano si chiama Filippo Conca, 26 anni, lecchese. Fino a pochi mesi fa lavorava come un qualsiasi ragazzo della sua età. Ma non aveva mai mollato la bici, grazie allo Swatt Team, una “non squadra” che raccoglie corridori senza contratto, offrendo loro il minimo indispensabile per allenarsi e partecipare alle gare.
Domenica, a Gorizia, ha scritto una pagina tanto storica quanto amara del nostro ciclismo. Ha vinto il titolo nazionale davanti a corridori professionisti, con l’aiuto di altri due “dilettanti” come lui, Mattia Gaffuri (5°) e Niccolò Pettiti (13°).
Ma la sua vittoria è anche uno schiaffo in faccia al sistema. Conca aveva già corso quattro anni tra i professionisti con risultati onesti, prima di essere scaricato senza troppi complimenti.
Un regolamento assurdo che umilia il ciclismo

Il regolamento italiano permette ad atleti senza contratto di correre la prova dei professionisti. E se in gara trovi squadre con corridori svogliati, malati o semplicemente stanchi, il paradosso è servito: puoi vincere.
E infatti è successo. Ma c’è di peggio: se Conca non troverà un contratto, non potrà nemmeno indossare la maglia tricolore durante le gare. Perché? Perché… non è un professionista.
Un cortocircuito assurdo che fa capire quanto il movimento sia finito dentro a un buco nero dal quale è difficile uscire.
Lo scandalo «Pago per correre» mai davvero risolto
Non è la prima volta che il ciclismo italiano si trova davanti a una crisi di sistema. Già nel 2017 era scoppiato lo scandalo «Pago per correre», che aveva fatto emergere un meccanismo tanto velenoso quanto diffuso: corridori che si portano dietro lo sponsor (magari l’azienda di famiglia) per comprarsi un posto in squadra.
Un sistema che ha distrutto il merito e lottizzato le carriere. E oggi il problema è più vivo che mai. Ci sono atleti molto meno forti di Conca che hanno un contratto grazie al portafoglio, non certo alle gambe.
Il grido disperato di Conca dopo la vittoria
Dopo il traguardo, Filippo Conca è scoppiato in lacrime. Le sue parole sono il manifesto di un movimento alla deriva:
«Ho vinto io, in questo ciclismo…»
Una frase che pesa come un macigno. Perché racconta la storia di un ragazzo che è stato espulso dal sistema, ma ha trovato la forza di battere chi quel sistema lo rappresenta, o forse lo trascina verso il fondo.
Un ciclismo italiano ai limiti dell’estinzione
I numeri sono impietosi. Sabato al Tour de France partiranno 7 o 8 italiani, contro i 16 del 2016, i 26 del 2005 e i 60 del 1995.
La fotografia è chiara: il ciclismo professionistico italiano è ai margini. Anzi, ai limiti dell’estinzione. E fa quasi sorridere il presidente della Federazione Dagnoni quando, davanti a questo disastro, parla di una «splendida narrazione».
La realtà è un’altra. Un movimento glorioso, con una storia centenaria, è finito nel nulla. Se non si riparte da zero, e con coraggio, il rischio è che il ciclismo italiano diventi solo un ricordo.
Lunedì torna Monza una città da serie A
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