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foto Facebook Michele Di Gregorio
foto Facebook Michele Di Gregorio

Michele Di Gregorio  presidia la porta del Monza con la solidità di un possente castellano. È il riflesso della forza che riceve dalla protezione di una grande famiglia, custodita con una maturità che va al di là dei suoi 26 anni. Da due stagioni è uno dei migliori portieri della Serie A, rendimento certificato dall’interessamento dell’Inter, la squadra che l’ha scoperto a sei anni e mezzo su un campo di Corsico, alle porte di Milano, e potrebbe riacquistarlo al termine di un lungo giro in tutte le categorie tra Renate, Novara e Pordenone. 

Di Gregorio, è vicina la chiusura del cerchio?

«Mi piace pensare all’oggi senza guardare troppo in là perché altrimenti si fanno male le cose quotidiane. Voglio concentrami su questi due mesi col Monza. Poi, dopo l’ultima giornata di campionato, vedremo cosa ci sarà di concreto. Sto benissimo a Monza. Non ho bisogno di scappare. Se verrà qualcosa per fare uno step, lo valuteremo. Non avrei mai pensato di arrivare così in alto quando mi chiamò
l’Inter da bambino».

Come è andata?

«Avevo 6 anni e mezzo, mi chiesero di aggregarmi per qualche allenamento in vista della stagione successiva. All’inizio non volevo andare, è stato mio papà Marcello a convincermi dicendomi di provare liberamente. Ogni tanto volevo smettere perché vincevamo con tanti gol di scarto ed ero impegnato poco».

Anche in quel caso dubbi superati

«Mi ha convinto ancora papà dicendo che sarebbero arrivate sfide contro squadre più forti. Ho perso mio padre quando avevo 13 anni. A 16 mi sono tatuato il suo nome sull’avambraccio. Ha dovuto firmare l’autorizzazione mia mamma Agata: “Se è per papà, va bene”. Adesso l’ho convinta a tatuarsi le nostre iniziali sulle dita: A, M, M e la A di mia sorella Angela».

È appena diventato padre per  la seconda volta

«Riccardo dopo Marcello, il primogenito chiamato come mio papà. Ho conosciuto mia moglie Samantha a 16 anni a Corsico. Mi ha seguito a Renate. Non è stato facile perché lì avevo uno stipendio normale. Adesso viviamo a Sedriano vicino a mia sorella, mamma, nonna e zia. Ho bisogno di stabilità, cerco quello che mi è mancato. Quando torno da Monzello, se qualcosa è andato male, a casa azzero tutto. Se fossi da solo, i problemi mi mangerebbero dentro».

In questi due anni di Serie A è filato quasi tutto liscio

Di Gregorio

«Sono cresciuto tanto grazie ad Alfredo Magni, il preparatore di Donnarumma al Milan. Crede molto nell’intensità del lavoro e nell’utilità della palestra. Mi sono irrobustito. Nei giorni scorsi abbiamo fatto un patto nello spogliatoio tra giocatori e allenatore: dobbiamo superare i punti dell’anno scorso quando abbiamo chiuso a 52. Ora ne abbiamo 42. Dobbiamo pensare di poter vincere ogni partita a partire da quella col Torino».

Cosa temete del Torino?

«È una squadra fisica che a tratti ti fa giocare male. Juric e Palladino sono allenatori simili, ma forse Palladino è più flessibile e aperto a provare situazioni nuove».

Cosa pensa del suo collega Milinkovic-Savic?

«Non sai mai cosa farà quando ha il pallone: appoggio vicino o lancio a 70 metri. Ormai il portiere va studiato come un giocatore di movimento. A me piace partecipare alla costruzione dal basso, ti senti coinvolto perché puoi aiutare a creare un gol».

Chi sono i suoi modelli?

«Julio Cesar e Handanovic. Allo sloveno cercavo di rubare ogni dettaglio in allenamento alla Pinetina. Lo seguivo con ammirazione a distanza. Qualche volta mi paragonano a Peruzzi. Forse per il fisico. È un grande complimento. Anch’io spero di arrivare in Nazionale, ma dopo gli Europei: adesso il gruppo è fatto. Non voglio viverla male, tengo lì questo desiderio come un sogno».

E fuori dal calcio?

«Ammiro la forza mentale dei tennisti. È una fonte di ispirazione per un portiere, solo davanti all’errore come loro. Mi affascina la capacità di ritrovare equilibrio dopo una fase negativa. Me ne sono reso conto andando a vedere le Atp Finals a Torino. Tifo per Sinner. Ma mi piace tantissimo Alcaraz per il suo mix tra colpo corto, capacità di lottare e grandi recuperi».

Lei ha fatto tanta gavetta: perché in Italia c’è poco coraggio con i giovani?

«Contano i risultati più di ogni cosa. Serve un nuovo equilibrio: inserire i giovani dentro un gruppo consolidato. Bisogna responsabilizzare di più i ragazzi nei settori giovanili. Siamo un po’ dentro questo processo, anche se forse con pochi italiani. La Juventus sta lanciando giovani. L’Inter lo fa da qualche anno: Bastoni, Barella, Dimarco».

Il suo amico Dimarco

«Siamo coetanei, abbiamo fatto tutta la trafila nell’Inter. Ci ritroviamo insieme a due ex compagni del vivaio: Enrico De Micheli e Nicolò Gazzotti. Loro hanno fatto altri percorsi dopo la Serie C, ma certi legami restano per tutta la vita. I tornei di una settimana lontano da casa a 14-15 anni non si dimenticano mai, come una gita scolastica».

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