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È un titolo che sembra aprire una finestra sul paesaggio, e invece spalanca una soglia sull’interiorità. Perché quello che Antonio Pedretti mette in scena è molto più di un paesaggio: è qualcosa di molto più profondo, una condizione dell’anima, una nostalgia, forse, un’attesa. Il bianco, in questo contesto espositivo è come una pelle viva, densa, graffiata, increspata, materica. A volte quieta, altre in fermento. È il luogo dove la pittura respira, dove la superficie diventa profondità. In certe opere si ha quasi la tentazione di toccarla, quella materia, per capire se pulsa. 

Per sentire se quel bianco sta ancora asciugando o se è già diventato memoria. Pedretti crea i suoi capolavori destreggiandosi tra visibile e invisibile. Quello che appare – un lago, una riva, una luce opaca, uno scorcio di cielo – è solo la parte emersa di qualcosa che vive al di sotto. E sotto c’è la materia, appunto. Una pittura che si addensa, si solleva, si screpola, si dilata, con straordinaria poesia e vitalità. È come se la tela, oltre a essere supporto, fosse un campo vivo, una pelle che reagisce al gesto. E quel gesto non vuole essere decorativo, ma lento, deciso, necessario. Si percepisce chiaramente che Pedretti non rincorre l’immagine, la ascolta. La lascia affiorare, a volte con dolcezza, altre con forza. E in questo emergere, anche lo spettatore è chiamato a fare lo stesso: a fermarsi, a guardare, ma soprattutto a sentire. 

C’è una componente intima e toccante in queste opere, una forma di pudore, quasi, come un paesaggio sussurrato. Ma se ci fermiamo, se accettiamo quel ritmo lento, possiamo scoprire un paesaggio che ci appartiene. Non perché l’abbiamo visto davvero, ma perché l’abbiamo vissuto, anche solo dentro di noi. Ed è qui che la memoria si risveglia, con dolcezza e forza al tempo stesso. 

Non serve sapere dove ci troviamo esattamente perché davanti a queste opere, ognuno ritrova un pezzo di sé. Pedretti riesce a toccare quei luoghi dell’anima che credevamo dimenticati, a riportare alla luce emozioni che ci appartengono. Sono frammenti di vissuto, di silenzi, di stagioni interiori. Non importa da dove veniamo: in quei paesaggi ci riconosciamo tutti, perché parlano una lingua profonda e comune, quella della memoria più vera. E poi c’è questa straordinaria capacità di far dialogare la concretezza del paesaggio lombardo – quello vero, quello delle brume, delle rive umide, della luce obliqua, delle foschie, della nebbia, della neve – con una pittura che ha qualcosa di assoluto. Le opere di Pedretti sono lombarde come può esserlo una poesia: essenziali, precise, e insieme cariche di universalità. Dentro la materia che emerge dalle sue tele, come anche nelle sue opere“paludose”, si avverte con forza il senso della rigenerazione. Pedretti ferma un tempo invisibile, quello in cui la natura lavora nel silenzio per rinascere. È il momento in cui la vita, senza clamore, prende il posto della morte. Le foglie che marciscono diventano nutrimento, l’acqua stagnante culla nuovi germogli, la luce filtra tra le pieghe del disfacimento e accende nuove possibilità. Nella sua pittura la morte è trasformazione, passaggio, energia che torna a circolare. 

E questa verità antica si fa pittura viva, pulsante, terrena e spirituale al tempo stesso. Pedretti ce lo ricorda con una pittura che è, prima di tutto, un atto di fedeltà. Quasi una dichiarazione d’amore al dettaglio più poetico del paesaggio lombardo. Un’attenzione creativa dedicata a un luogo, a una luce e a una terra in cui pittura, poesia e materia si cercano e si parlano. La lentezza è una scelta di qualità, quasi esistenziale. E il silenzio, in queste opere, è uno spazio vissuto, intensamente abitato, come certi silenzi tra due persone che si conoscono da una vita. Osservare questi paesaggi è un po’ come tornare a casa, e riscoprire la verità più semplice e più dimenticata: che la bellezza ha bisogno di tempo, e che il tempo – se lo si sa abitare – sa restituire senso anche alle cose più fragili. Pedretti dipinge le pause. E con estrema delicatezza, ci invita a riconoscerci dentro di esse, come in un silenzio che dice più di mille parole. Alberto Moioli Biografia Antonio Pedretti nasce il 2 febbraio 1950 a Gavirate (VA). La sua formazione avviene, dapprima, alla scuola di pittura del Castello Sforzesco e poi all’Accademia di Brera che abbandona nel 1972. 

Nel frattempo, all’età di sedici anni, ha già allestito la sua prima personale alla Galleria Ca’ Vegia di Varese con opere dipinte a spatola in cui erano rappresentati, con un certo sentimentalismo e una pregevole, precoce abilità tecnica, paesaggi, casolari, fiori, alberi, acque stagnanti. Soggetto quest’ultimo che resterà una costante all’interno del percorso dell’artista, nato sulle rive del lago e dunque intimamente legato a questo genere di paesaggio naturale. Dopo aver partecipato ad alcune collettive, fra le quali ricordiamo il Premio Nazionale Varese Arte, Antonio Pedretti ordina nel 1970 una seconda personale alla Galleria Ghiggini di Varese con alcuni nudi che ricordano certe dolcezze segniche di un De Pisis o un Bonnard, e con una serie di paesaggi dedicati alla Sicilia. Due anni dopo espone alla Galerie L’Angle aigu di Bruxelles ottenendo un lusinghiero successo di critica sulla stampa belga. Antonio Pedretti è presentato da Renato Guttuso: ‘Caro Pedretti, benché tu sia molto giovane, il tuo lavoro offre già alcuni elementi sicuri per giudicare delle tue doti non comuni. Non si può non essere colpiti dalla sicurezza con cui il tuo segno, le tue note di colore definiscono un paesaggio, una figura, un intero nei suoi tratti essenziali; del piglio con cui il tuo disegno ha la capacità di penetrare la forma, ad indagarla con precisione, senza cadere nell’analisi minuziosamente accademica. 

Oggi il tuo lavoro si trova ad un punto assai serio, e mi pare che i tuoi dipinti recenti contengano elementi nuovi rispetto alla felicità e facilità delle tue precedenti pitture. C’è la coscienza di un impegno nuovo e di nuove difficoltà. È la premessa di un balzo in avanti’. I primi risultati di questa appartata fase di sperimentazione sono per Antonio Pedretti una serie di paesaggi immaginari composti solo di onde marine e di vaganti nubi e fissati in atmosfere sospese percorse di vivida luce. È il gesto, alla maniera di Pollock, ad assumere importanza in queste opere della seconda metà degli anni ’70, un gesto ampio e disteso che consente alla materia pittorica di espandersi e corrugarsi, di brillare in vividi colori e di disegnare trame allusive. 

Dipinge queste immagini ‘informali’ su fogli di pvc o di plexiglass e le rinchiude all’interno degli stessi stratificando i materiali ed utilizzando anche delle resine. Viana Conti nella presentazione della mostra Ceneri a reazione, tenutasi nel 1982 al Luogo di Gauss di Milano, vede in queste scelte un punto di avvio: ‘Il pittore, dopo essersi scatenato nelle grandi dimensioni e dopo aver dimostrato di poter invadere il mondo, ritesse uno spazio di gioco e di analisi e ricomincia a parlare dietro un velo. La soglia al di là della quale ripete i suoi gesti pittorici è quella della trasparenza di una lastra di plexiglass. Ma quella lastra è lì per creare una distanza, per funzionare ancora come una finestra, un punto focale dello sguardo. La libertà dell’artista, nelle sue opere recenti, non è cercata nell’estensione massima delle braccia, nell’urlo a voce spiegata, ma in una successione di piccoli gesti e di modulazioni della voce. Quel pensiero del limite che prima diventava angosciante, ridiventa per questo artista praticabile, quando addirittura non è una condizione per dare continuità al discorso arte.

L’idea di frammento, liberandosi di una connotazione rovinosa ricrea una condizione di partenza per la costruzione non più del monumento del passato, ma di un documento presente. Nel lavoro di Antonio Pedretti è recuperabile un ricordo di matrice informale, che nel tempo si è svuotato di significati e di valori, trovando nella frequentazione della materia’ e dei colori… pulsioni magiche e ludiche’. Ed in effetti la questione del naturalismo in Antonio Pedretti è centrale come dimostrano i suoi esiti ulteriori. Difatti, abbandonate, a partire dalla metà degli anni ’80, le velleità delle avanguardie contemporanee, Antonio Pedretti ritorna in una certa misura a quel senso della natura delle origini, a liriche evocazioni paesistiche, memori però della gestualità informale e soprattutto della lezione di tre grandi maestri del genere: Constable, Segantini e Morlotti. 

Dei primi due ritroviamo nelle immagini di Antonio Pedretti il sapiente uso delle scansioni cromatiche e la grande capacità di strutturare l’insieme per giochi chiaroscurali; del terzo, appare evidente il rapporto -diremmo- terragno con la materia, la quale sempre tende più a solidificarsi e ad acquistare spessore. Indubbiamente queste sono solo referenze culturali, le solide basi su cui poggiano le costruzioni pittoriche di Antonio Pedretti, il quale si affida a sensazioni visive, ma soprattutto ricrea in studio sul filo della memoria visioni che già sono depositate nel suo immaginario fin dall’infanzia, che affiorano e si accumulano ad ogni esperienza. 

E, se dapprima rendeva delle ampie panoramiche dei paesaggi lacustri, delle erbe di palude e dei canneti, ora pare immergervisi, in un rito quasi di sapore simbolico, per evidenziare un dettaglio, per isolare un particolare, per mettere a fuoco uno stelo o un fiore o un intero cespuglio.

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